Liber mi aveva chiesto un intervento sullo spazio. Il tema mi sembrava vago, anche se mi aveva fatto subito pensare alla fantascienza. Ora l’articolo è uscito insieme a interventi e interviste di Federica Velona, Francesco Carofiglio, Pia Valentinis, Daniele Barbieri, Adolfina De Marco, Francesca Brunetti, Fausto Boccati, Filippo Mittino, Emiliano Fasano, Giulia Mirandola. Il mio è anche qui sotto. Trovate gli altri sul numero 120 di Liber sotto un bel titolo: Lo spazio delle storie. Qui confermo: lo spazio delle storie è infinito. Quindi è l’universo. Che altro?
°°°
Scusate. Di che spazio stiamo parlando? Quello definito da base, altezza e profondità? Quello della nostra stanza da bambini? Quello oltre lo specchio di Alice? Quello di cui hanno bisogno i due membri di una coppia? Quello della fisica che può contenere tutto e tutti? Quello astronomico, zeppo di galassie dove l’uomo non metterà mai piede? O quello ortografico che separa tra loro le parole di una frase? Scherzi a parte, il buon Albert Einstein ha messo d’accordo tutti dicendo che non solo il tempo, ma anche lo spazio è relativo all’osservatore, anzi spazio e tempo sono una stessa entità. In pratica lo spazio, piccolo o grande che sia, non è uguale per tutti, enunciato che vale non solo in fisica, ma anche per l’idea che ci siamo fatti nella nostra testa.
A me, e ai giovanissimi lettori che incontro, la parola “spazio” evoca il cosmo, l’universo, astronavi e viaggi interstellari, Star Wars e Alien, la Terra “vista dallo spazio”, Margherita Hack, Stephen Hawking e Neil Armstrong, i primi passi sulla Luna e il progetto di viaggio su Marte. Non sempre stato così e tuttora non è così per tutti.
Lo spazio piccolo. Per Aristotele e i suoi coetanei, lo spazio era poca cosa. Era contenuto in una serie sfere cave concentriche sulle quali erano incastonati il Sole, la Luna, i pianeti e stelle. Queste sfere ruotavano attorno alla Terra e non molto lontano da essa. Muovendosi emettevano una musica celestiale, non udibile dagli orecchi umani. Ipparco di Rodi, 2200 anni fa fu più pratico: calcolò la distanza tra noi e Luna e tra noi e il Sole. Sbagliò di non poco (95%), in difetto, ma il metodo -trigonometrico- era corretto. Lo spazio lassù era misurabile.
Nel medioevo, Dante insegna, lo spazio attorno alla Terra addirittura si riduce. È quasi tutto occupato da angeli, santi e soprattutto saturato dal buon Dio. Anche per Copernico lo spazio non è poi tanto grande, in compenso la Terra finalmente comincia ad orbitare attorno al Sole e non viceversa.
Con Galileo e il suo cannocchiale lo spazio diventa esplorabile. Galileo si proclama “messaggero delle stelle”. Ma il suo cosmo rimane piccolo, quasi provinciale, soprattutto quando dà il nome di “astri medicei” (in onore di Cosimo de’ Medici) ai quattro satelliti di Giove da lui scoperti. Un po’ più grande è lo spazio di Giordano Bruno, che per aver detto che il Sole è una stella come tante altre finisce bruciato sul rogo in Piazza del Campo dei Fiori. Così è lo spazio immaginato da Keplero, che sostituisce i cerchi e le sfere con ellissi altrettanto perfette.
Ma qui devo aggiungere una chicca. Keplero fa di più: scrive il primo romanzo di fantascienza della storia. Va sulla Luna dove un demone lunare, da casa sua, vede la Terra che ruota attorno a se stessa. È il primo autore che parla di “spazio” unendo scienza e fantasia.
Lo spazio statico. Anche quando Newton enuncia la sua legge di gravitazione universale l’idea di spazio è limitata. L’universo, dice Newton, è come Dio che l’ha creato, eterno e immutabile. Il suo tempo è universale e scorre dappertutto allo stesso modo, a Londra come nel più lontano angolo dello spazio. Ci vorrà Einstein per demolire quest’idea.
Intanto, grazie a telescopi più potenti, vengono scoperte le galassie. Per molto tempo si penserà che sono semplice nebulose, ma persino Immanuel Kant è intrigato dall’idea che siano invece ben altra cosa, in uno spazio infinitamente più grande. Aveva ragione.
A fine ‘700 William Herschel abbozza il disegno della nostra galassia. È una immensa spirale, formata da più di 200 miliardi di stelle. Il suo è uno sforzo di immaginazione e deduzione straordinario perché il nostro Sole è solo una piccola stella gialla di un suo ramo periferico. Dall’interno possiamo vederne solo una parte: la chiamiamo Via Lattea. Comunque fino al 1920 nello spazio, o meglio nell’universo, era opinione comune che ci fosse una sola galassia, la nostra, appunto. Poi le galassie si moltiplicano, diventano cento, mille e così via. Anzi, se fino al 1920 la sfida era contare le stelle, dopo la sfida è diventata contare le galassie. Non solo, nel 1929 l’astronomo Edwin Hubble, che poi ha dato il suo nome al primo osservatorio spaziale, scopre un fatto incredibile. Le galassie si stanno allontanando le une dalle altre. E tutte fuggono da un solo punto.
Esploso. Chi come me ha nutrito l’adolescenza con i romanzi di fantascienza di Isaac Asimov e Robert Sheckley non si stupisce per certe scoperte dell’astronomia. Le trova interessanti ma assolutamente “normali”, quasi previste. Meno normale, anzi assolutamente straordinario è l’irruzione nell’immaginario collettivo di quello che poi è stato chiamato Big Bang, il “Grande Botto”, nome inventato da Fred Hoyle, un simpatico astronomo-divulgatore durante una trasmissione radio del 1949. Oggi viene insegnato a scuola e lo si trova ben disegnato in tutti i libri di divulgazione per ragazzi. Quando il fisico russo Alexander Friedman nel 1922 aveva utilizzato le formule della Relatività per dimostrare che l’universo si sta espandendo in tutte le direzioni anche Einstein era rimasto sorpreso, anzi indispettito. Quando poi George Lemaitre -fisico e sacerdote cattolico- nel 1931 ha dimostrato che tutto l’universo -o “spazio” se preferite- ha avuto inizio in un solo punto, persino Papa Pio XII si è entusiasmato troppo e voleva metterci il copyright. Padre George Lemaitre ha dovuto bloccarlo e invitarlo a non esagerare. Ma la somiglianza con il “fiat lux” biblico, anche secondo Einstein, era – ed è- tuttora imbarazzante.
Inafferrabile. Così nel corso degli ultimi decenni abbiamo visto lo spazio allargarsi a dismisura e riempirsi di nebulose, buchi neri e di altri straordinarie sorprese cosmiche. Gli astronomi che avevano cominciato a contare le galassie si sono resi conto che non avrebbero mai finito e che i confini dello spazio sarebbero diventati sempre più lontani e irraggiungibili. Mentre mi state leggendo l’universo si sta espandendo alla velocità di 73,24 km al secondo, cosa che porterà al suo raddoppio nel corso dei prossimi 9 miliardi di anni.
Noi non ci saremo, ma sono numeri e anni che fanno pensare se vale la pena arrabbiarsi se l’Italia non ha potuto partecipare agli ultimi Mondiali. Insomma, mentre qui sulla Terra gli spazi sono diventati sempre più limitati e prenotati (nel 2030 saremo 8,5 miliardi), mentre ci si accapiglia sull’idea di confini, lo spazio è cambiato nel tempo e nella nostra testa. Ora è infinito come i territori dell’immaginario.
Lunare. Di tutto questo spazio al momento ne abbiamo conquistato un microscopico pezzettino. Grazie a personaggi reali come Umberto Guidoni, Luca Parmitano e Samantha Cristofoletti, i ragazzi e le ragazze di oggi sognano di fare l’astronauta e di andare su Marte prima del 2050. Ma la parola “conquista” appare esagerata. Cinquanta anni fa l’uomo è sbarcato sulla Luna allargando di parecchi milioni di miglia la sua invadenza. La cosa risultò così straordinaria che qualcuno ancora non ci crede, anzi, grazie agli stupidari su internet, i detrattori della NASA sono addirittura aumentati. In realtà quella che per molti miei coetanei fu una notte memorabile, non fu un evento condiviso da tutti. Io rimasi incollato al televisore, fino al mattino, mentre si alternavano a dire la loro personaggi della cultura e dello spettacolo di allora. Lo sbarco era in diretta dallo Studio 3 di via Teulada della Rai, allora tutta in bianco e nero. “Ha toccato! Ha toccato!” Fu annunciato ufficialmente. “No, non ha toccato” ruggì Ruggero Orlando, dall’altra parte dell’Atlantico. Infatti il modulo toccò il suolo lunare quasi un minuto dopo. Ne seguì un battibecco e noi allibiti perdemmo il vero istante dell’allunaggio e la storica frase di Armstrong: “Houston, uh! Tranquility Base here. The Eagle has landed”, l’aquila è atterrata.
Quella notte Alberto Moravia era tra gli ospiti, giustamente invitato come rappresentante della cultura italiana. Dichiarò candidamente “mi emoziona di più una tappa del giro d’Italia .” Era il 20 luglio 1969. Eppure, una settimana prima, su L’Espresso aveva scritto: “È una meta insieme finita e infinita. E le implicazioni psicologiche, politiche e sociali di questo abbinamento a livello razionale del finito con l’infinito sono enormi”. Troppo spazio allo spazio, alla scienza e alla tecnologia, forse lo aveva già annoiato.
ps. Uno spazio senza inizio e senza fine, che genera altri universi e altre storie è di Stephen Hawking. Per la cronaca sarà il 20° personaggio della serie Lampi di Genio.